giovedì 7 giugno 2012

Parusia


Fluido scorrere di binari sotto ruote di treno. Acciaio che morde acciaio a centotrenta chilometri all’ora; correre restando fermi in un film proiettato dal finestrino, un film ricamato di strie d’acqua che rompono il vetro in frammenti di paesaggio.

Quando il treno si fermerà.

Ascolto musica nello scomparti- mento vuoto e aspetto che il film sfumi tra le ombre serali per chiudere gli occhi e sognare di nuovo. Sfilano campi di neve coperti da gelida nebbia; senza sosta piove.

Quando il treno si fermerà.

Lontano, lontano da tutto ascolto musica per non ascoltare le voci che parlano nelle stanze della mia mente. La tua voce, la sua voce, la vostra voce. Sono voci che mi hanno stancato. La mia voce che incessante e solerte mi parla, assume i timbri dissimili di mille altre voci, mi soffoca. Siamo le nostre parole ma se, per un attimo, riusciamo a zittirci, se, per un attimo, riusciamo a soffocarci, siamo.
Ascolto musica e aspetto che il film sfumi nelle ombre serali. Quando il treno si fermerà, e io con lui.

Vagoni spopolati e silenziosi, quasi del tutto.

Affronto la dura realtà del viaggio: non s’aprirà la porta sulla venere incantata che cerca il calore del mio corpo. Non entrerà una femmina affamata che ha comprato il biglietto per giacersi con me, per essere riempita del mio sperma caldo, per gustare schizzi di viscido seme, del mio seme, tra labbra oscenamente spalancate, sulla lingua, fino alla gola.

“Buonasera, biglietto …”

Neanche il controllore col cappello sulla nuca aspetta più, da secoli, la passeggera sconosciuta e misteriosa che sale solo per amare ed essere amata, tra una stazione e un’altra, tra un sibilo e il silenzio. E’ stanco, quasi quanto me, di questo gioco puberale d’adulti adolescenti, di questa speranza invana nel miracolo salvifico d’una apparizione impossibile più che improbabile. S’allontana la fine dei tempi ad ogni tempo che scorre sotto le ruote del treno.

“Grazie, … buonasera”

Perché provo questa soddisfazione infantile nell’essere in regola con il biglietto? Certo che lo sono, ho pagato fior di quattrini per comprarlo. Certo che lo sono, l’ho letto bene (ne sono capacissimo) e ho preso posto nel sedile riservato, scritto qui, qui sullo schienale liso e qui, qui sul biglietto cartonato. Certe volte mi chiedo se capita anche ad altri sentirsi sotto esame quando mostrano il biglietto ad un controllore più stanco che vivo.

Rimetto le cuffie dell’i-pod e mi rituffo nel Requiem.
Quando il treno si fermerà.
Dormo prima che il film sfumi nell’oscurità ma non è un problema, l’ho già visto.

“Scusi? … la disturbo?”

Eccome se mi disturbi.

Apro gli occhi, interrogo il mondo. Il mondo mi risponde con i suoi occhi.
Vorrei dire qualcosa d’ironico e maleducato come

“Si, un tantinello …”

oppure

“Pesantemente … ma dato che ci siamo …”

o, anche

“sparisci rompipalle …”

Occhi azzurri sotto un caschetto biondo, è più svelta di me:

“Mi spiace svegliarla ma non c’è nessuno in giro. Cercavo il capotreno”

(Ho la faccia da capotreno, io? Forse si.)

“Non saprei come aiutarla, mi spiace”.

(Ho la faccia da capotreno, io ???)

“Magari posso chiedere a lei …”

(Evidentemente ho la faccia da capotreno, devo farmene una ragione)

“Prego, ma non ci faccia affidamento …”
“Ho preso il treno al volo ma, forse, ho sbagliato, mi confondono tutti questi binari, non sono italiana. Da noi è tutto diverso, molto più semplice”.

L’ultima fermata è stata due ore fa; probabilmente la ragazza non brilla per celerità di pensiero.

“Questo treno va a Napoli, lei dove doveva andare?”
“A Roma; sono nella direzione giusta?”
“Direi perfetta. Se siamo in orario ci arriviamo tra un’ora, più o meno”.

Si siede e apre la borsetta. Gonna stretta a tubino e calze in nylon. Scarpette tacco alto. Come volete che si sieda una vestita così? Chiappe in bilico sul bordo e gambe allineate di lato, classico.

Rimira estasiata il suo biglietto e poi alza la testa, caschetto biondo compreso:

“Grazie, meno male, qui è tutto così complicato”.

Sì lo hai già detto, ho afferrato il senso. Tu vieni dal paese del “tutto facile” e noi viviamo nel labirinto di Dedalo. Le FFSS, poi, non sono il massimo nel semplificare la vita, anche per chi è abituato ad affrontare ben altre burocrazie.

Ora, se fossimo in un racconto pornografico, ci starebbe un ringraziamento tangibile, una scopata a novanta contro i sedili o un pompino sontuoso. Invece niente: si rialza e, mentre sistema il biglietto nella borsetta nera, mi saluta.

“Ancora mille grazie, buon viaggio …”
“Buon …”

E’ già andata.

Quando il treno si fermerà.
L’avrò già dimenticata, spero.

Chiudo gli occhi e sogno. Il viaggio deve continuare, in qualche modo.

“Signore?”

Ma non era vuoto questo cazzo di treno? Apro gli occhi e mi dò una grattata alla barba mentre guardo quest’altro rompipalle in uniforme.

“Si?”

“Mi potrebbe cortesemente favorire i documenti?”

Ma non c’è dogana tra qui e lì. Che cerca da me?

“Perché?”

Indurisce lo sguardo, non molto ma tangibilmente.

“Normale controllo, routine … le ruberò solo un attimo”

Routine. Però è in uniforme e mi accorgo che ha anche tre stellette. Faccio i conti. Un capitano dei carabinieri non fa controlli di routine su treni passeggeri. Mi alzo, prendo il portafoglio dalla tasca della giacca e cerco la carta d’identità. Routine.
Eccola, la passo, ben aperta, nelle sue mani.

Guarda con attenzione la mia foto. Caruccio vero?

“Grazie …”

Mi rende il documento e sta per uscire ma si ferma, guarda il sedile vicino alla porta, si china e raccoglie tra le dita guantate un capello biondo.

“Scusi, ancora una domanda: ha visto una ragazza bionda, carina, sui venticinque?”

See, magari! No, aspetta, sì l’ho vista.

“Si, una così è entrata qui un attimo per chiedermi un’informazione, poi è andata”.
“Ah … e quando?”
“Perché?”

Ora mi squadra in modo decisamente ostile. Non sopporto che la gente mi squadri in modo decisamente ostile, soprattutto non sopporto che un capitano dei carabinieri mi squadri in modo decisamente ostile, mi crea un certo disagio. Routine. Certe volte mi chiedo se capita anche ad altri sentirsi a disagio quando un capitano dei carabinieri li squadra in modo decisamente ostile.

“Quando?”

Guardo l’orologio, faccio due conti e rispondo di malavoglia:

“Direi più o meno un’ora fa …”
“Più o meno? Ne è sicuro?”
“Si un’ora fa, più o meno”.

Estrae con noncuranza la pistola e me la punta in faccia:

“Alzi le mani e le metta dietro la testa … lei è in stato d’arresto preventivo”.

Alzo le mani e le metto dietro la testa. Ora sono veramente molto a disagio. Certe volte mi chiedo se capita anche ad altri sentirsi molto a disagio quando un capitano dei carabinieri li tiene sotto mira e chiama alla radio qualche gendarme di rinforzo.

“Posso sedermi almeno?”
“Si, ma piano …”

Mi siedo, ma piano. La pistola del caramba mi fissa in modo più ostile del suo proprietario. Sarà che lei ha un solo occhio, sì, sarà sicuramente per questo.

“Ma che succede?”
“Niente … stia fermo e non succederà niente”.
“Guardi che io non mi muovo ma qualcosa sta succedendo … vorrei essere ottimista ma non capita tutti i giorni di stare seduto con una pistola in faccia e un carabiniere che ti guarda come se fossi un assassino”.
“Chi le ha detto che c’è stato un omicidio?”
“Nessuno e non ho parlato di omicidio, ho solo detto …”
“Lascia stare … stai zitto”.

Carino passare al tu, da testimone a indagato in tre minuti; con questo ritmo vado al patibolo prima dei prossimi cinque.

Mi sveglio; era un sogno, per fortuna. Guardo l’ora, ancora poco all’arrivo. Sono agitato, troppo agitato, mi alzo e vado in corridoio. Ci vorrebbe una sigaretta, mi sa che ne approfitto del treno vuoto e l’accendo lo stesso.

Silenzio e oscurità nella penombra del vagone. Eccola la nostra straniera trafelata, dorme appoggiata al vetro dello scompartimento vicino al mio. Dorme, ma Roma è passata da un pezzo.

Apro la porta, non sono cazzi miei ma s’è persa la fermata.

“Signora … signorina scusi, ma lei non doveva scendere?”

Silenzio.

“Signorina?”

Un’inquietudine malsana mi annoda lo stomaco. Sono impressioni d’un attimo. Colgo, in un lampo di coscienza, che non ha le scarpe, non addosso almeno. Silenzio.

“Signorina?”

Le tocco la spalla. Scivola silenziosamente di lato e s’accascia, la guancia sul velluto rosso del sedile. E’ grigia, occhi sbarrati, labbra livide, lingua gonfia oscenamente esposta tra denti candidi. Al collo, stretta in garrota impeccabile e micidiale, una frusta nera. Indietreggio nel corridoio fino al finestrino. E’ un maledetto incubo, occhi sbarrati negli occhi vitrei del cadavere e poi alla fusta che l’ha strozzata: non c’è dubbio che sia, innegabilmente, d’ottima fattura, certo che lo è, è la mia frusta.

Mi gira la testa, sto per cadere; una mano mi serra la spalla.

“Che succede qui?”

La morta accenna un sorriso e strizza, dispettosa, l’occhietto.

“Io …”

Il controllore mi scruta con stanca curiosità. Sono seduto nel mio scompartimento, sono qui, sono ancora qui, non mi sono mosso. Un altro incubo … che viaggio! Fuori buio, dentro luce fioca e rumore di binari.

Quando il treno si fermerà.

“Sì …?”
“Niente, stavo dormendo …”

Mi contempla dubbioso ancora un attimo poi si spinge il cappellino dietro la testa, sulla nuca.

“Biglietto per favore …”
“Eccolo, ma l’ha già visto …”
“No, non sono ancora passato …”

Gli porgo il biglietto. Lascio perdere le discussioni, non voglio sprecare fiato. Controlla il cartoncino e sorride.

“Vede? Nessun buchino … comunque tutto a posto”.

Deflora il biglietto con la macchinetta grigia e mi porge il cartellino con un sorriso annoiato. Sono, nella sua testa, l’ennesimo sciroccato che sale sul suo treno e, forse, ha ragione.

Se ne va, non lo saluto, troppo impegnato a guardare il film buio oltre il rettangolo di vetro.

Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà.

Il suo volto è oltre il buio, riflesso dal vetro nel nulla del paesaggio: caschetto biondo e labbra rosse. Mi volto lentamente e lei sorride, sorride lasciva.

“Non è scesa a Roma?”
“No, certo …”
“Perché?”

Ride di cuore, ride di gola, ride di me …

“Ma perché ero morta, no?”

Non ho tempo per rispondere, chiude la porta dello scompartimento e tira le tende. Velluto verde lercio tra dita di fata, unghie laccate, rosse.

“Mi sembri viva ora …”

E’ assurdo, è assurdo ma lascio che scivoli in ginocchio davanti a me. Mi slaccia la cintura, la sfila, la divora con gli occhi; occhi che colano lascivia, occhi che chiamano peccati.

“La userai sul mio culetto? Mi piace se la usi sul mio culetto”.

Libera il mio membro e gioca con la sua durezza, carne pulsante e calda tra dita di fata, unghie rosse, laccate. Lingua morbida che scorre su liscio piacere bagnato di saliva, turgido di desiderio. Mani, le mie mani, sulle sue spalle, dita nel suo colletto alto e castigato, strappo. Sipario aperto sul reggiseno in pizzo, tette piene, gonfie di carne, capezzoli eretti sotto seta fine. Carezzo e afferro, cerco con le dita i suoi urli.

Lecca, succhia, geme, si toglie con rabbia e impellenza i vestiti. Lecca, succhia, geme. Una mano, la sua mano, sul seno tortura il capezzolo che lascio libero dalla mia morsa. Una mano, la sua mano, le scorre al ventre. Lecca, succhia, geme, si masturba. Affondo nella bocca calda di saliva, affondo nell’intima essenza del suo verbo fino a toccarne il letto. Si stacca con ferocia famelica, mi guarda. Occhi rossi intorno a cristalli azzurri d’ossidiana rara.

“Prendila!! Prendila!! Prendila!! Usala, prendimi!!!”

Indica con disperazione la mia borsa. La mia borsa, la mia frusta.

La prendo per i capelli della nuca: biondo caschetto scomposto tra le mie dita, seta nei miei artigli. La spingo a lato, piega il collo e crolla a terra. Mani di fata sul pavimento sporco dello scompartimento, unghie laccate, rosse, spezzate, sanguinanti.

La borsa cade sul sedile, apro la cerniera e prendo la frusta, nera, luccicante, micidiale, arrotolata. Spire di pelle scura come la notte. L’annusa come una lupa affamata, guaisce come una cagna in calore. La frusta scivola intorno al suo collo. Stringo, stringo, stringo. La penetro da dietro e stringo la frusta intorno al suo collo, rossa stria sul candore della tentazione. Il suo sesso si apre al mio, bagnato, fradicio, inondato. La prendo e la scuoto.

“E’ libero?”
Apro gli occhi.

Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà.

Occhi azzurri e caschetto biondo, si siede e apre la borsetta. Gonna stretta a tubino e calze in nylon. Scarpette tacco alto. Come volete che si sieda una vestita così? Chiappe in bilico sul bordo e gambe allineate di lato, classico.

Guarda il biglietto:

“Non ho la prenotazione, secondo lei mi cacciano?”

Strappo con le unghie l’ultimo pezzo di sogno. Sorrido.

“Io non lo farei …”

Alza la testa e mi guarda seria.

“Lei non ha la faccia da capotreno”.
“No, non ho la faccia da capotreno”.

Sorride, estrae dalla borsetta una pistola e ma la punta al naso:

“Alzati e spogliati, porco!”

Con una mano chiude la porta, urtare violento di metallo su metallo, tira le tende dello scompartimento. Velluto verde lercio tra dita di fata, unghie rosse laccate.

“Sei un sogno, io lo so … non mi alzo”.

Si alza lei, sorridendo, si china su di me, poggia la pistola alla mia fronte e mi stacca una sberla epocale. Dolore che si apre la strada dalla guancia al cervello poi alla nuca e, infine, alle spalle.

Quando riapro gli occhi ancora sorride, ancora mi punta una pistola alla fronte.

“Sarò anche un sogno ma so far male …”

Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà. Se si fermerà.

Ha ragione, sa far male. Mi spoglio e resto nudo davanti a lei, copro l’inguine con le mani.

Micidiale, precisa, crudele; mira e spara. Dolore senza nome, apro le mani ridotte a brandelli urlando e lei spara ancora.

“Svegliati delinquente …”

Apro gli occhi e il capitano dei carabinieri mi guarda con severità, astio, odio.

“Cosa ? …”

Due agenti mi prendono le braccia e mi tirano in piedi con brutalità. Uno dei due è una femmina. Occhi azzurri, caschetto biondo, profumo di peccato, unghie laccate, rosse.

“Ti sbattiamo in cella e buttiamo via le chiavi, sei contento maiale?”

Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà. Se si fermerà.

Mi spingono in corridoio. Nello scompartimento vicino al mio il corpo del controllore giace a terra, nudo, strangolato dalla mia frusta. Gli occhi sbarrati, la lingua gonfia protesa lecca oscenamente, nell’ultimo sussulto isterico, il pavimento del vagone.

“Sei contento? Sono stata brava?”

Mi accarezza il membro ancora duro e ammantato di sperma, umori, sangue. La guardo con tenerezza, quasi con amore: l’intreccio della frusta le disegna intorno al collo un serpente rosso di dolore.

“Quasi, sì …”

Si solleva dal sedile e mi bacia.

“Devo andare, è tardi, siamo quasi a Roma …”

Ammiro il suo corpo e la sua classe mentre si riveste, ridendo dei suoi abiti strappati …

“Per fortuna ho l’impermeabile in borsa”

Esce dallo scompartimento mandandomi un bacio sulla punta delle dita; mi torna in mente una domanda:

“Ma tu non eri …?”

E’ già sparita, la inseguo nel corridoio ma lì non c’è nessuno.

Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà.

Mi giro e mi trovo davanti un muro grigio, alto, freddo.

Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà.

Scivolo in silenzio lungo il muro, in silenzio mi accascio a terra nella luce obliqua che sporca il mio buio con un tramonto sudicio di periferia. Sopra la testa, mille metri sopra, una finestra lercia con sbarre d’acciaio.

Poggio la guancia al muro, disegno con il gessetto due ruote, poi. Un assale, poi. Un rettangolo, poi. Un piccolo camino e fumo che esce, poi. Una linea che è un binario.

Le chiavi girano nella serratura, rumore brutale di metallo che graffia metallo: mi portano la cena, che bello. La cena e la punturina per la notte.
Che bello!.

Disegno, graffio, col gesso e unghie spezzate il mio treno. 
Il MIO treno.
Appoggio la mano sul muro, sotto le dita la mia locomotiva. La MIA locomotiva.
Chiudo gli occhi.

Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà.
Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà.
Tatamtatam, tatamtatam. Quando il treno si fermerà.

Io morirò.

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