giovedì 25 dicembre 2014

Hard & Soft



Le cose, a volte, semplicemente, capitano.

Se passi qualche anno immerso nella "scena", o nella "community" come si usa dire oggi, tendi ad abituarti a ritmi e riti che sono propri degli usi e costumi tribali dei praticanti ma, per contro, non ti rendi conto (o forse ti dimentichi) che non per tutti è così, non sempre è così, non è sempre stato così.

Alcune vivono ancora il sogno di un possibile equilibrio tra "normalità" e "perversione", di un possibile compromesso tra essere, fondamentalmente, pervertiti e vivere una vita apparentemente separata dalla propria sessualità più sfrenata. Per garantirsi questo equilibrio non poche si rifugiano nell'idea di potersi limitare a "pratiche soft". Un antipasto di sé stesse senza la necessità di accedere al piatto forte della propria, più genuina, depravazione.

Elena era una bella donna, lontana dalla quarantina ma già oltre l'età in cui si poteva chiamarla "ragazza" senza fare la figura del cafone.

Esercitava la professione antica dell'avvocatura, la seconda professione più vecchia del mondo e nata con le stesse prerogative della prima.

La conobbi sul solito sito sadomaso, a mezzo della solita messaggeria e l'approcciai con il solito sistema: gentilezza e leggerezza; lungo percorso ad ostacoli da svolgersi con cauta pazienza ma le regole della seduzione valgono tra i vampiri come tra gli umani come tra i licantropi. E io che sono un po' di tutto questo non voglio far fare brutta figura alle categorie che immeritatamente rappresento.

Con grazia e con serenità la feci passare dal confidenziale "tu" ad un più rispettoso "Lei" e le proibii il "Voi" solo perché non lo ritenevo consono ad un seguente "Signore" che le venne imposto già alla terza chat.

Con lei, che mi aveva così tanto chiesto delle pratiche "soft", mi divertii ad inscenare quanto di più hard poteva ricavarsi dal soft. Tanto hard da superare, senza mai neanche uno schiocco di cracker, una vera e propria fustigazione. Il che per un amante delle fruste come il sottoscritto è quasi come essere miracolate.

Fu l'ispirazione del momento, le cose a volte semplicemente capitano, a suggerirmi un modo per limare  al nocciolo la sua sfrontata supponenza che univa ad una formale, passiva sottomissione, in un gioco alterno di sudditanza e di ribellione, di superiore inferiorità. Almeno in chat ...

I capelli ricci e rossi, le forme morbide e aggraziate ma non appesantite, gli occhi immancabilmente verdi, le labbra piene, il volto chiaro e arguto. Così mi si presentò al dungeon sette giorni dopo il primo saluto nel web; un vestitino leggero, stampato a fiorellini, biancheria intima quasi in visione pubblica, in mano la borsa di cuoio con la quale andava in ufficio e sul braccio destro la toga che s'era portata via dallo studio per un paio di rifiniture domestiche. Così mi disse e io feci finta di crederle.

La feci accomodare sul divano di pelle nera e non mi passò neanche per l'anticamera del cervello di raccontarle che su quello stesso divano, le natiche al vento, gemente e sbavante carezze e dolore, avevo ospitato qualche giorno prima un'altra donna. Che in quella posizione, o in altra simile, prima che facesse sera e per una lunga, interminabile lezione di spanking, avrei ospitato lei.

Parlammo un poco e mi confermò quello che in chat già mi aveva comunicato. Amava le corde e la sottomissione ma il dolore fisico le faceva paura.

Mai forzare la mano, in fondo se a qualcuno non piace soffrire perché insistere? Prima o poi cambierà idea anche su questo ma, davvero, discutere con un'avvocatessa dei sofismi sadiani fa gioco? Per me no.

Fu così che venni ispirato dal suo abitino leggero, le ordinai di spogliarsi e - mentre lei, un poco imbarazzata, si cavava uno per uno vestitino, scarpette, reggiseno e slip - iniziai a preparare le corde per un hishi gote (comunemente chiamato karada) da viaggio.

Presi ad incrociare le corde appena sopra il seno e da lì disegnai davanti e dietro la fuga di rombi che avvolgono a rete le tette, la pancia, i glutei.

Passando con le corde tra le cosce le imposi di allargare con le sue stesse mani le grandi labbra, mi posizionai in ginocchio per meglio prendere la mira e le collocai tre nodi nei punti strategici, uno sul clitoride, uno all'ingresso della vagina, uno sul buchino posteriore che mi sembrò stretto  al punto giusto per esercitare, anche lì, una dominazione "soft".

Quando ebbi chiuso il nodo necessario a mantenere saldo tutto il costrutto la feci voltare e la feci rimirare allo specchio.

Era superba ed era bella, raggiante nella ragnatela di canapa rossa.

Le feci raccogliere i capelli ricci in una bella coda alta e le carezzai il seno giocherellando coi capezzoli. Le tastai il sesso cercando tra i ricciolini di pelo le corde e le trovai, come mi aspettavo, già fradice di desiderio.

"Incontenibile troietta", le sussurrai all'orecchio e lei, semplicemente, chinò il capo e gemette sommessamente delle scuse imporobabili.

"Indossa la toga ..."

Mi guardò incuriosita e speranzosa.

"Signore ? ..."

Voleva essere certa di aver sentito bene, la piccola feticista.

"Metti la toga e le scarpe, usciamo a fare un giro in macchina"

"Sì ... Signore"

Obbedì velocemente e si mise sulle spalle la toga, chiudendola con apprensione sul davanti e mantenendone serrati i lembi con le mani, unghie smaltate di rosso su dita affusolate e tremanti.

"Signore ... posso?

"Cosa?"

"Davvero mi porta fuori? Io non so, non ho mai ..."

"Vuoi tornare a casa e buonanotte?"

Un singulto e un sospiro di resa.

"No Signore, mi scusi se l'ho disturbata con le mie domande sciocche".

Troietta impenitente, scommetto che solo l'idea di snocciolarmi le sue "contrite scuse" le aveva fatto inzuppare corde e passera fino allo sfintere anale.

Le feci chiudere la porta del dungeon mentre mi accendevo una sigaretta e la presi sottobraccio spingendola, quasi, verso il portone del palazzo.

Lungo la strada fu oggetto di qualche occhiata incuriosita ma la mia presenza e l'aria quasi professionale della puttanella furono sufficienti a distogliere pensieri morbosi. La prossima volta, pensai, le faccio pure portare una cartellina con una bella scritta in giapponese: forse "Troia" o forse "Cagna in Calore", da qualche parte dovevo aver conservato i kanij per questi due gentili appellativi.

La feci accomodare in macchina e già il salire sul fuoristrada le presentò il primo conto della sua legatura "soft".

Ma non fu questo a devastarla sulla strada che le feci percorrere, sempre seduta, da Milano a Genova  e ritorno.

Chilometro dopo chilometro la corda iniziò a fare il suo mestiere e pizzicare, prima, per poi arrivare a bruciare. L'attrito tra canapa e pelle, il sudore, gli umori, le mucose sensibili, lavorarono su di  lei e sulle sue parti intime mentre io, in silenzio, fumavo e guidavo, rivolgendomi alla mia allieva solo per farmi accendere le sigarette e per chiederle cosa sentisse tra le cosce.

Furono curve divertenti e ogni tanto la guardavo in faccia, soprattutto all'uscita da qualche tornante, per scannerizzarle il livello di sofferenza.

"Sei ancora eccitata?"

Arrossì un poco e mandò giù un groppo di saliva.

"Si Signore ... ma ... posso Signore?"
"Dimmi ..."
"Non credo di riuscire più a sopportare il bruciore ... "

Sorrisi, la guardai con dolcezza e con profondo affetto.

"Al primo autogrill ci fermiamo e, vedrai, troveremo un rimedio per farti dimenticare il bruciore alla passera".

"Grazie Signore!!"

Sembrò sollevata e di nuovo felice. Ne fui deliziato. Che ci volete fare? Noi Dominanti siamo nati per servire.

Ci fermammo dalle parti di Ronco Scrivia, strada del ritorno e la feci scendere dall'auto.

Fu un calvario e fu magnifico guardarla arrancare, paludata nella toga, tra un cliente e l'altro dell'autogrill. Infine bevve con attenzione il suo caffè e fu dispensata dal mescolare lo zucchero nel mio: era fin troppo presa a non svenire di vergogna e di dolore nel bel mezzo del bar o nel corridoio dello shop, tra un pupazzo di Peppa Pig e uno del Pulcino Pio Pio.

Tornammo alla macchina e nei suoi occhi c'era la disperazione pura.

Non sapeva se rinnovarmi o meno la richiesta di alleviarle il bruciore, non sapeva se doveva fare o no da "segretaria" a promemoria del mio impegno.

La feci salire al suo posto.

"Apri la toga"

Mi guardò allibita. Non si aspettava che facessi quello che dovevo fare (qualsiasi cosa fosse) proprio lì, nel bel mezzo del parcheggio di una stazione di servizio.

"Signore ... io"
"Apri".

Titubante aprì i lembi della toga e mi espose il seno, le mammelle rinchiuse in rombi di canapa, esaltate e turgide, oscenamente belle, lisce, sensibili.

Presi dalla tasca le pinzette d'acciaio e, velocemente, le serrai sui capezzoli.

Quasi urlò ma dovette contenersi e si morse le labbra per farlo.

"Vedi tesoro? Ora hai risolto il problema del bruciore tra le cosce: hai qualcosa di più importante a cui pensare ..."

Inghiottì un paio di volte e una lacrima genuina le solcò le guanciotte piene.

"Grazie ... Signore".
Non c'era sfida nel suo ringraziamento e fui certo che difficilmente ce ne sarebbe stata ancora, da quel giorno in poi.

Salii in macchina e partii con un bello strappo, quasi sgommando.

Iniziò a lamentarsi e supplicare cinque chilometri e settecento metri dopo l'autogrill e la lasciai gemere e disperarsi, contorcersi sul sedile, aggrapparsi alla cintura di sicurezza, mordersi le labbra e scarnirficarsi le ginocchia ad unghiate, ancora per altri cinque chilometri.

Mi fermai in un'area di parcheggio semideserta e le ispezionai il sesso. Scostai le corde e introdussi un dito nella vagina. Era ancora grondante e le fu impossibile reprimere una contrazione di piacere, pur martirizzata da canapa e pinze d'acciaio.

"Sei una pain slut, alla fine ..."
"Scusi Signore ... mi vergogno di me stessa ..."
"Palle troietta. Ora come ora tu e la vergogna state in due universi paralleli separati da porte stagne."

Le feci aprire la toga e le tolsi le pinze.
Urlò di dolore alla prima. Ne fui quasi soddisfatto ma non come lo fui del muggito isterico che le cavai di gola strappando quasi dal capezzolo la seconda.

Aspettai che riprendesse fiato.

"Possiamo andare adesso? Hai finito di annoiarmi con le tue esigenze da bambolina viziata?"
Rispose immediatamente, fissando con terrore le pinze che ancora tenevo in mano.
"Sì ... Signore ... grazie Signore".

Non si lamentò più fino al dungeon.

Quando rientrammo le accennai ai suoi vestitini ancora poggiati sul divano nero.

"Se non vuoi continuare puoi vestirti e andartene. Se resti ti verrà data una safeword e un nome, un piccolo collare da gioco e, stasera, resterai qui fino a quando il tuo sedere non avrà lo stesso colore di questo divano".

Guardò i vestiti e guardò me.
Si sfilò la toga e la lasciò scivolare a terra.
S'inginocchiò.

Baciò la punta delle mie scarpe, ne assaporò il cuoio nero con le labbra, ne succhiò l'aroma di antico e di solido, iniziò a leccarle mentre sul suo sedere alcune carezze, qualche piccola sberla,
uno o due sculaccioni, sfiorando e sfidando le corde che ancora l'avvolgevano, annunciavano l'avvento di una nuova era.

Mi venne la prima volta, ancora in ginocchio, qualche secolo dopo, quando le centrai con un secco scappellotto - e non per sbaglio - il nodo che le costringeva il clitoride.

Dura lex, sed lex.

Rimase e le prese fino alle due di notte. Venne fino a seccarsi e dopo venne ancora perché così mi piaceva che fosse.

La volta dopo volle provare la frusta.

Le cose, a volte, semplicemente, capitano ...

Hard e soft sono solo parole.
Ma di questo abbiamo già parlato e non vale la pena ricominciare.

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