martedì 1 maggio 2012

Possessione

Il sole d’ottobre sguscia radente tra i palazzi del centro, sconfigge e spazza la tenue resistenza dell’aria, gioca tra le tue ciglia e si frantuma nel verde dei tuoi occhi, scintillando schegge di luce fino al mio cuore.
Mi ferisce la tua bellezza, la tua quieta e inarrivabile bellezza, i tuoi capelli neri come il peccato, le tue labbra rosse come petali straziati di rose, la tua pelle bianca, immacolata, senza nei, senza imperfezioni, marmorea e diafana fino alla freddezza, solcata da linee immaginarie di desiderio, del mio desiderio.

Seduta al tavolo dinnanzi al mio mi sei panorama ed orizzonte. Bevi il tuo improbabile cappuccino e leggi, con attenta distrazione, un orario ferroviario. Sembri assorta nel nulla di numeri e stazioni, numeri e orari ma di tanto in tanto, come richiamata dal mio desiderio, abbandoni il tuo nulla di arrivi e partenze, alzi lo sguardo al mondo e punti le tue armi assassine, i tuoi occhi avvelenati di promesse, nei miei occhi scavando, impietosa, nell'infruttuosa ricerca della mia anima.


Una volta tanto non sono in ritardo, una volta tanto non ho affanni, grane da sbrogliare, nodi d’ansia da sciogliere in qualche credibile scusa, minuti da conquistare al tempo beffardo, secondo dopo secondo, e da perdere subito dopo in una coda inaspettata, ad un letargale semaforo, incastrato dietro un camion in doppia fila. Una volta tanto ho tempo, tanto tempo, e uso del tempo per perdermi nella bellezza. Nella tua bellezza.

Ti alzi e sei, sì è così, inarrivabile. Il tuo vestitino improbabile nella  Milano autunnale mi ricorda che l’estate non ha nessuna intenzione di morire, quest’anno, e pretende ancora un tributo di desiderio al suo altare infuocato di promesse, di scorci di pelle, di narcisistiche voluttà. I tuoi seni hanno sfrontata e matura pienezza. Il tuo sguardo ha la dissoluta arroganza della sensualità, le tue gambe hanno la snellezza nervosa della vitalità e portano al mio ventre la promessa oscena di serrarsi intorno al mio bacino e spingermi in te, in te trattenermi fino alla fine dei tempi. E oltre.

-    Posso?

Accenni col mento alla sedia dinnanzi alla mia mentre riponi l'orario ferroviario nella borsa di cuoio in stile "figlia prediletta dei fiori".

Non capisco (non oso capire) la domanda e chiedo, a mia volta.

-    Scusi?
-    Dicevo, ti dispiace se mi siedo qui un attimo?

Un retrogusto di francese rotola dalla tua lingua alla mia anima e cuspidi di velluto s’infiggono nel centro stesso del mio desiderio. Hai un accento lieve che mi sa di Parigi e d’inverno in pelliccia, di suoni e luci della capitale, di notti fredde e amplessi all’angolo d’una strada, complice il cielo coperto e la fantasia d’un momento.

-    Ah, sì certo … è libero.

E’ una mossa inaspettata ma le parigine, già le parigine, sono un’altra cosa.

Davvero.

-    Ti ricordo qualche tua antica fiamma? Una donna che conoscevi e che hai perso di vista molti anni fa? Un’amica d’infanzia? Una vicina di casa della gioventù?

Ancora una mossa inaspettata; davvero le parigine, che donne! Provo a rispondere come posso ma sto, soprattutto, litigando con la trachea per non farmi andare il te di traverso.

-    No, a dire il vero, no.
-    Bene! Sono contenta, così sono sicura di piacerti per me stessa e non per altre intruse. Ci tengo sai?
-    A cosa?
-    A non essere il feticcio di un’altra donna. E’ così noioso farsi carico delle aspettative di uomini delusi che ti vogliono solo perché gli ricordi la cugina, la vicina di casa, la parrucchiera della moglie, la compagna di classe …
-    Capisco. No, niente di tutto questo. Sei bellissima per quello che sei, te l’assicuro.

So essere sfacciato, a volte, non sempre ma quando l’occasione lo richiede so essere molto sfacciato.

L’occasione lo richiede.

-    E tu? Ti ricordo qualcuno io?
-   No, nessuno in particolare. A dire il vero non ti avrei neanche notato se non ti fossi così ampiamente imposto alla mia attenzione con la tua intrusiva ispezione.
-    Scusa, non mi ero reso conto …
-  No, no, niente, sono abituata ad essere misurata, pesata, guardata, desiderata e sognata. Ho qualche specchio anch’io ...
- ... davvero?
- ... spiritoso! Dicevo ... ho qualche specchio anch'io e mi dispiace quando non riesco a far diventare un po’ maleducato ed invadente un uomo. E’ come se perdessi il mio potere.

-    Capita spesso?
-    Cosa?
-    Di perdere il tuo potere?

Sorride, quasi ride, guardandomi, occhi negli occhi.

-    Mai!

Il sole, sconfitto dal palazzone rosa abbandona le sue iridi piangendo e supplicando di poterne adorare, almeno per qualche secondo ancora, le scintille fatate; supplicando di potersi, per qualche secondo ancora, affogare nell'indicibile verde dei suoi occhi, nel profondo nulla nero delle sue pupille.

Io abito lontano. In ogni senso lontano. Lontano dalla città, lontano dal centro abitato. Io abito lontano ma lei non ha fretta, è più curiosa che frettolosa. Quella calda curiosità che nelle donne, mediamente, mi dà un fastidio viscerale, che mi sa di guanti di gomma, bigodini, pattine per il pavimento e buchi di serratura, cortili e case di ringhiera. Quella curiosità che in lei diventa armonia di domande e piccanti allusioni. Le parigine! Tutt’altra stoffa. Le loro piccanti allusioni sono fatte in modo diverso, sono più piccanti ma allo stesso tempo, come dire, più lievi, più ... parigine, appunto.

-    Abiti lontano?
-    Molto.
-    Che carino! Io non sono mai stata nel tuo "molto lontano", mi ci porti?

L’ho guardata per un attimo come se mi fosse sbarcato sotto il naso tutto il cast di Guerre Stellari Chewbecca in testa e la principessa Leila in topless.

-    Davvero, io abito molto lontano.
-    Pure io, per questo. Sei sposato? Fidanzato? Gay? Ti piacerebbe fare l’amore con me?
-    No, no, no. Sì.
-    Sì cosa?
-    Sì, mi piacerebbe molto fare l’amore con te ma non so se a te piacerebbe farlo con me.
-    Perché?
-    Perché io non sono, come si dice, un uomo normale, anzi.
-    In che senso? A parte che a me gli anormali piacciono da impazzire, ovviamente.
-    Io faccio cose che normalmente le persone considerano malate, perverse, diaboliche.
-    Io non sono “normalmente le persone” …
-    Lo vedo.
-    Ci speravo lo vedessi. Quindi andiamo? Non hai fame? Io da morire! So cucinare benissimo sai? No, non puoi saperlo. Te lo dico io.

S’è già alzata e m’ha preso la mano, quasi tirandomi in piedi.

-    Dai mio pervertito amore, fammi vedere cosa ti piace e vediamo se riesci a scandalizzare una parigina …
-    Sei di Parigi?
-    Oui mon amour, Montparnasse.
-    Ah, bello!
-    Conosci?
-    ... Vagamente.

Io vivo lontano, lontano da tutto. Ma questo già lo sapete. Ci abbiamo messo un bel po’ ad arrivare ma non è stato un viaggio noioso, no no, per niente. Anzi.

Lei sa parlare un italiano praticamente perfetto, con un accento francese che m’istigava, ad ogni curva, a fermare la macchina,  ribaltare i sedili e prendermela lì, come antipasto, sul ciglio della provinciale mentre i camionisti sfrecciavano verso serali aree di sosta e i pendolari pendolavano indietro, verso casa, verso trepidanti massaie in attesa d’un paio d’orecchie nelle quali riporre le loro abnormi e fumose frustrazioni.

Lei sa parlare un italiano praticamente perfetto, con un accento francese che mi manteneva eretto anche mentre mi raccontava del suo lavoro, delle sue galanti avventure, dei suoi incontri folli come stasera, come con me, come in quel momento.

Sì io abito lontano ma per la prima volta penso che forse è davvero un po’ troppo lontano. Ci dovrò ragionare meglio la prossima volta. O mi faccio abbordare nel bar del paese o mi trasferisco in città.
Vedremo.

In ogni caso davvero lei cucina benissimo ma il mio vino ha una parte non secondaria nella cena, vino italiano, vino siciliano, di quello che fino a vent’anni fa non piaceva a nessuno e che ora, ora, fa faville anche a Parigi. Ve l’assicuro.

A proposito, si chiama Marguerite. Marguerite Ferranti. Semmai vi capitasse d’incontrarla però non ditele che ho scritto di lei, mi raccomando, è così riservata.

Sotto il vestitino leggero porta solo un paio di slip rigorosamente bianchi. Toglie anche quelli in sala da pranzo e li appoggia sulla sedia dove già il vestitino è finito, subito dopo il caffè. Mentre si spoglia mi chiede se voglio fare la doccia con lei o se preferisco dopo.

Ci penso un attimo. Il box doccia è stretto, troppo stretto per due persone, opto per il dopo.

- Se vuoi puoi guardarmi mentre mi lavo. Ti piace guardare e, magari, masturbarti un pochino? A molti uomini piace.
-  Sì piace anche a me ma preferisco qualche altra cosa per ora, magari dopo.
-  Sei timido?

E’ nuda, davanti a me, in piedi. Le prendo la nuca e la chiamo al mio desiderio, labbra quasi sulle labbra, un lieve sfiorarsi di bocche socchiuse, assaporarsi senza gustarsi, giocare con la passione sfiorandone gli sfrangiati contorni, carezzarsi senza divorarsi e toccarsi senza penetrarsi. Un guizzare di lingue e sotto le mie mani la pelle morbida, elastica e tiepida di Marguerite, i suoi seni, i suoi fianchi, le sue cosce, le sue braccia.

-    No, non sei timido, vedo.

Spinge il bacino verso il mio bacino e struscia il sesso depilato e fresco sul mio sesso duro, desideroso di farsi strada il lei, in ogni lei penetrabile e accessibile, in ogni lei aperto a me o che sarò in grado di farmi aprire, prima che tutto finisca e il sogno svanisca nel sole pallido d’una città morente.

Mentre fa la doccia parliamo, parliamo di lei, di me, dei miei desideri e dei suoi. Aveva ragione, non si può scandalizzare una parigina, non si riesce mai a scandalizzare una parigina, una parigina è inscandalizzabile.

-    Resti vestito?
-    Per ora sì.
-    Ma poi?
-    Poi si vedrà.

E’ flessuosa Marguerite, è lei il serpente originario che morse Adamo prima ancora di vendere ad Eva la mela. E’ morbida e soda la sua carne che cede tra le mie braccia, che bacia il mio collo, che struscia il nudo sesso alla stoffa dei miei calzoni mentre la lego al cavalletto, le braccia aperte trattenute per i polsi, le cosce spalancate, fissate con giri di corda grezza poco sopra le ginocchia, poco sotto i polpacci. Mentre lavoro alle sue caviglie sopra di me la sento respirare e gemere, la sento desiderare e chiamarmi.

-    Mi farai male?

Mi guarda armata di occhi verdi e scintille di lascivia, mi guarda irridente mentre coi denti si martirizza deliziata il labbro inferiore. Mi guarda e mi sfida a risponderle. Non puoi scandalizzare una parigina. Lo sapevo bene, fin dall’inizio.

-   Si Marguerite, ti farò molto male; ti farò un male infinito.
-   E ti piacerà?

La bacio, prima giocando con le sue labbra e poi possedendola, in bocca, con la lingua. Lingua su lingua, lingua intorno alla lingua ne assaporo il gusto di femmina, di donna, di preda. Poggio il mio bacino su di lei, le lascio sperimentare la consistenza dura, invasiva, del mio sesso, le prendo un capezzolo tra le dita e gioco con la sua eccitazione, la sua attesa. Il primo gemito ansioso di dolore lo bevo direttamente dalla sua bocca, lo esalto, lo prolungo fino a sentirne gli spasimi ambrati colare verso dimensioni d’ansia convulsa e poi lo smorzo in una carezza di puro desiderio, di pura passione.

Piano, con calma, stacco le mie labbra dalle sue gustando ancora per un attimo il sapore forte della sua saliva, della sua bocca. Piano, con calma, la carezzo, percorro al curva eccitante del seno, l’areola e ancora il capezzolo; coi polpastrelli ne disegno la turgida insistenza, la sfacciata prominenza. Lascio che il piacere si avvicendi al dolore e le prendo il mento tra le mani, bevo ai suoi occhi umidi di lacrime e perversione. Bevo alle sue labbra inondate di lascivia. E’ un sussurro che mi carezza il membro la sua voce, così francese, così parigina.

-    Oui, spero che sarà una lunga notte …
-    Lo sarà te lo assicuro.
-    Mercì.

Il cavalletto è resistente, pesante, inchiodato al pavimento. Nella stanza dei miei giochi non mancano le fruste e sarei tentato, ora, di prenderne una e disegnare sulla sua pelle strisce sottili di dolore, sottili segni d’intenso e rovente e sofferto piacere ma ancora non è tempo, la notte sarà lunga e non mi piace bruciare le tappe, non quando ho tra le mani una vera parigina.

La guardo, nuda e legata, esposta ai miei occhi, bella, i seni pieni, i fianchi stretti, i capezzoli piccoli e sfacciati, le gote arrossate, la linea eccitante del collo, le cosce scattanti, gli occhi verdi scintillanti desiderio i capelli neri, morbidi e vivi. Perfetta, semplicemente perfetta, la pelle chiara e pura dei suoi avi normanni.

Potrei anche amare una creatura così, se fossi capace d’amare.

Le sorrido e lascio che per un attimo si abbandoni al piacere, la masturbo lievemente, ne tasto la consistenza del clitoride duro, quasi pulsante, ne invado il lago di umori che gocciola, quasi, tra le mie dita, gioco con le piccole labbra aperte come petali d’orchidea e indugio con languore all’ingresso morbido del suo sesso, da qui, bagnate le dita di lei stessa vado ad esplorarla, ne lubrifico l’ingresso e piano, pochi millimetri per ora, ne varco la soglia, in delicata ma decisa conquista della sua riposta intimità.

Geme la cagna, geme la troia e gemendo mi supplica di penetrarla, di scioglierla, di fotterla dietro e davanti. Geme e si struscia, apre la bocca in aneliti di desiderio e ostenta la lingua, lecca dinnanzi a sé la mia mano che le permetto di assaporare e che lei gusta come animaletto devoto, devota cagnolina in calore, devota schiava della sua stessa oscena eccitazione.

-  Sei una scrofa Marguerite, sei una vera scrofa. Cosa devo fare con te tesoro? Ti picchio o ti fotto? Cosa preferisci bestiolina?
-   Entrambi ... ti prego …

E’ un sussurro ma ben s’intende un sussurro nel silenzio spezzato solo dalla musica antica e mai demodé degli ansiti profondi e dei singulti d’inappagata eccitazione.

“Entrambi ... ti prego” non è possibile, per ora, ma vedremo che fare, in seguito, per accontentarla.

La lascio a se stessa pochi secondi, il tempo d’aprire un armadio in legno di noce ed estrarre una cassettina di rovere colma d’interessanti giochini. Poggio la cassetta sul top del cavalletto e la apro guardando lei e sorridendo a lei e nutrendomi di lei, della sua attesa, della sua speranza.

I piccoli pesi s'adattano perfettamente alle sue grandi labbra e le clamp - che spettacolo mentre le minuscole pinze si serrano sui capezzoli -  la mordono affamate di sofferenza pretendendo e strappandole dolore come brani d'anima. Urla e per un attimo, lo vedo nei suoi occhi sbarrati, pensa di non riuscire a farcela, di non riuscire a reggere l’intensa e bruciante e pungente pena che le apre il seno e s’insinua da questo fino alla nuca, al centro stesso del suo essere, al centro stesso della sua mente.
Danno soddisfazione le parigine, l’ho sempre detto, anche in altri e passati tempi, anche quando col mio amico Donatien Alphonse …, ma quella è tutta un'altra storia, tutto un altro mondo.

Tu, Marguerite, tu sei già trasmutata, sei già oltre. Il semplice guardarti mi suscita pensieri scabrosi di viva adorazione. Dinnanzi a me non più una femmina, una donna bella ma di bellezza usuale, dinnanzi a me una Dea, una Creatura di Celestiale ed Infernale bellezza fiammeggia dolore e piacere, come stella splende di propria luce. Basta così poco per rendere unica una donna, basta così poco per renderla sovraumana e adorabile come una vera Divinità.

Ansimi e farfugli lievemente parole in francese e in italiano, qualche frammento di una lingua ancora più antica che mi solletica l’orecchio come se ... come se ci fosse tra noi un legame che va oltre l’adesso. Una lingua così antica che lo stesso Lucifero potrebbe averla inventata e poi dimenticata ma che noi, sue imperfette creature, ancora ascoltiamo con infinita nostalgia del perduto Eden, del perduto primordiale peccato.

Ti bacio e ora la tua saliva ha il sapore dolce del dolore che incessante ti trafigge i capezzoli come ago rovente, ti risale lungo i seni e ti brucia il collo, le orecchie, le tempie. Ti bacio e tu mi baci lanciandoti sulla mia bocca come su anestetico alle tue triviali sofferenze. Com’è facile farsi amare da una piccola e stupenda parigina. Con quale impeto di passione succhi la mia lingua e implori il mio membro, ora. Con quale infinito amore, con quanta infinita devozione leccheresti il mio sperma pur anche dal pavimento adesso che il dolore intenso ti trapassa il cervello come lama arroventata e ti fornisce un commendevole alibi per il più osceno abbandono.

Quanto amore riversa la mia piccola preda nelle mie mani sbavando e succhiando le mie dita, lavandole dai suoi stessi umori, dagli umori che raccolgo colanti dalla sua vulva, dalle sue cosce spalancate, e con la quale mi diletto dissetarla.

Ti guardo negli occhi e ti poso una mano sul collo, un attimo d’intesa e sai che è ora d’urlare forte, molto forte, più forte che puoi per superare con la voce il rumore assordante del tuo stesso dolore.  Tolgo le pinze da un capezzolo e mi delizi della tua armonia arrochita di sofferenza. Non lascio che si spenga il primo urlo, non sarebbe generoso farti questo favore, tolgo anche la seconda pinza e sotto il palmo della mia mano, ancora poggiata sul collo, vibra un grido potente che ha il sapore inebriante dell’angoscia e della disperazione.

La lascio riprendersi, lascio che singhiozzando mi lecchi le dita e lascio che il piacere torni a dominare i suoi nervi carezzandone la pelle calda e morbida, la diafana, candida pelle.

-    Encore, je vous en prie, encore.
-    Ancora mia piccola cagnetta? Ancora cosa? Ancora dolore? Ancora piacere?
-    A la fois mon maitre. Entrambi mio padrone.
-    Ne sei certa?
-    Oui, ne sono certissima, ti prego …

Sono così speciali le parigine, così particolari, così perverse.

La slego dal cavalletto e la prendo in braccio. Come fosse una bimba la sollevo e la porto verso il grande letto della casa persa nel lontano dei suoi sogni, dei suoi più intimi desideri, delle sue più riposte perversioni.

E’ forte il diavolo, sa come sollevare i sogni di una donna e trasportarli al talamo della sua stessa perdizione. Ci sarà tempo per frustarti e leccare dalla tua schiena le dolci gocce del tuo sangue caldo d’eccitazione. Ci sarà tempo per penetrarti da dietro mentre supplichi e gemi e piangi di dolore, umiliazione, piacere, desiderio. Ci sarà tempo per farti leccare a lungo il mio ano soffocando i tuoi gemiti sconci ed osceni sotto i miei glutei mentre lievemente, profondamente, ti martirizzo i capezzoli e ti masturbo senza mai più consentirti, mai più per l’eternità, d’appagare l’eccitato devastante desiderio, l’impellente, fragorosa eccitazione.

Ci sarà tempo per riempirti la bocca del mio sperma bollente, per ustionarti la lingua con il mio seme partorito dal magma stesso della creazione e depositato dal Padre mio nel mio ventre perché ne infettassi le figlie di Eva.

Ci sarà tempo per ghermirti i neri corvini capelli e schiacciarti il volto sul mio membro ancora duro e ordinarti di leccarlo e succhiarlo, ripulirlo dei tuoi umori e del mio seme e adorarlo in eterna, prostrata venerazione.

Ci sarà tempo per farti firmare, col tuo stesso sangue, il patto eterno che ti donerà un’immortale scintillante bellezza in cambio di un’anima comunque già persa oltre gli oscuri, monumentali portali del peccato. In cambio di un’anima comunque già mia prima dei tempi e prima del tempo stesso.

Ci sarà tempo per questo e anche per altro ma io non ho fretta.

Mentre ti porto sul grande letto assaporo le tue carezze e il caldo sapore d’intimità, il forte profumo di donna che s’espande come onda di maremoto dal tuo sesso ancora bagnato di lusinghe e promesse.

Il diavolo a volte riesce anche quasi ad amare le anime che miete, quasi a scaldarsi con la loro fiamma.

Quasi.

In ogni caso lei sarà presto mia.
Per tanto, tanto, tanto tempo ancora.   

[Fine ...]

2 commenti:

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