Il sole d’ottobre sguscia radente tra i palazzi del centro,
sconfigge e spazza la tenue resistenza dell’aria, gioca tra le tue
ciglia e si frantuma nel verde dei tuoi occhi, scintillando schegge di
luce fino al mio cuore.
Mi ferisce la tua bellezza,
la tua quieta e inarrivabile bellezza, i tuoi capelli neri come il
peccato, le tue labbra rosse come petali straziati di rose, la tua pelle
bianca, immacolata, senza nei, senza imperfezioni, marmorea e diafana
fino alla freddezza, solcata da linee immaginarie di desiderio, del mio
desiderio.
Seduta al tavolo dinnanzi al mio mi sei
panorama ed orizzonte. Bevi il tuo improbabile cappuccino e leggi, con
attenta distrazione, un orario ferroviario. Sembri assorta nel nulla di
numeri e stazioni, numeri e orari ma di tanto in tanto, come richiamata dal mio desiderio,
abbandoni il tuo nulla di arrivi e partenze, alzi lo sguardo al mondo e
punti le tue armi assassine, i tuoi occhi avvelenati di promesse, nei
miei occhi scavando, impietosa, nell'infruttuosa ricerca della mia anima.
Una
volta tanto non sono in ritardo, una volta tanto non ho affanni, grane
da sbrogliare, nodi d’ansia da sciogliere in qualche credibile scusa,
minuti da conquistare al tempo beffardo, secondo dopo secondo, e da
perdere subito dopo in una coda inaspettata, ad un letargale semaforo,
incastrato dietro un camion in doppia fila. Una volta tanto ho tempo, tanto tempo, e uso del tempo per perdermi nella bellezza. Nella tua bellezza.
Ti
alzi e sei, sì è così, inarrivabile. Il tuo vestitino improbabile
nella Milano autunnale mi ricorda che l’estate non ha nessuna
intenzione di morire, quest’anno, e pretende ancora un tributo di
desiderio al suo altare infuocato di promesse, di scorci di pelle, di
narcisistiche voluttà. I tuoi seni hanno sfrontata e matura pienezza. Il
tuo sguardo ha la dissoluta arroganza della sensualità, le tue gambe
hanno la snellezza nervosa della vitalità e portano al mio ventre la
promessa oscena di serrarsi intorno al mio bacino e spingermi in te, in
te trattenermi fino alla fine dei tempi. E oltre.
- Posso?
Accenni
col mento alla sedia dinnanzi alla mia mentre riponi l'orario
ferroviario nella borsa di cuoio in stile "figlia prediletta dei fiori".
Non capisco (non oso capire) la domanda e chiedo, a mia volta.
- Scusi?
- Dicevo, ti dispiace se mi siedo qui un attimo?
Un
retrogusto di francese rotola dalla tua lingua alla mia anima e cuspidi
di velluto s’infiggono nel centro stesso del mio desiderio. Hai un
accento lieve che mi sa di Parigi e d’inverno in pelliccia, di suoni e
luci della capitale, di notti fredde e amplessi all’angolo d’una strada,
complice il cielo coperto e la fantasia d’un momento.
- Ah, sì certo … è libero.
E’ una mossa inaspettata ma le parigine, già le parigine, sono un’altra cosa.
Davvero.
-
Ti ricordo qualche tua antica fiamma? Una donna che conoscevi e che hai
perso di vista molti anni fa? Un’amica d’infanzia? Una vicina di casa
della gioventù?
Ancora una mossa inaspettata; davvero le
parigine, che donne! Provo a rispondere come posso ma sto, soprattutto,
litigando con la trachea per non farmi andare il te di traverso.
- No, a dire il vero, no.
- Bene! Sono contenta, così sono sicura di piacerti per me stessa e non per altre intruse. Ci tengo sai?
- A cosa?
-
A non essere il feticcio di un’altra donna. E’ così noioso farsi carico
delle aspettative di uomini delusi che ti vogliono solo perché gli
ricordi la cugina, la vicina di casa, la parrucchiera della moglie, la
compagna di classe …
- Capisco. No, niente di tutto questo. Sei bellissima per quello che sei, te l’assicuro.
So essere sfacciato, a volte, non sempre ma quando l’occasione lo richiede so essere molto sfacciato.
L’occasione lo richiede.
- E tu? Ti ricordo qualcuno io?
- No, nessuno in particolare. A dire il vero non ti avrei neanche notato
se non ti fossi così ampiamente imposto alla mia attenzione con la tua
intrusiva ispezione.
- Scusa, non mi ero reso conto …
- No, no, niente, sono abituata ad essere misurata, pesata, guardata,
desiderata e sognata. Ho qualche specchio anch’io ...
- ... davvero?
- ... spiritoso! Dicevo ... ho qualche specchio anch'io e mi dispiace quando
non riesco a far diventare un po’ maleducato ed invadente un uomo. E’ come se perdessi il mio potere.
- Capita spesso?
- Cosa?
- Di perdere il tuo potere?
Sorride, quasi ride, guardandomi, occhi negli occhi.
- Mai!
Il
sole, sconfitto dal palazzone rosa abbandona le sue iridi piangendo e
supplicando di poterne adorare, almeno per qualche secondo ancora, le
scintille fatate; supplicando di potersi, per qualche secondo ancora,
affogare nell'indicibile verde dei suoi occhi, nel profondo nulla nero
delle sue pupille.
Io abito lontano. In ogni senso
lontano. Lontano dalla città, lontano dal centro abitato. Io abito
lontano ma lei non ha fretta, è più curiosa che frettolosa. Quella calda
curiosità che nelle donne, mediamente, mi dà un fastidio viscerale, che
mi sa di guanti di gomma, bigodini, pattine per il pavimento e buchi di
serratura, cortili e case di ringhiera. Quella curiosità che in lei
diventa armonia di domande e piccanti allusioni. Le parigine! Tutt’altra
stoffa. Le loro piccanti allusioni sono fatte in modo diverso, sono più
piccanti ma allo stesso tempo, come dire, più lievi, più ... parigine,
appunto.
- Abiti lontano?
- Molto.
- Che carino! Io non sono mai stata nel tuo "molto lontano", mi ci porti?
L’ho
guardata per un attimo come se mi fosse sbarcato sotto il naso tutto il
cast di Guerre Stellari Chewbecca in testa e la principessa Leila in
topless.
- Davvero, io abito molto lontano.
- Pure io, per questo. Sei sposato? Fidanzato? Gay? Ti piacerebbe fare l’amore con me?
- No, no, no. Sì.
- Sì cosa?
- Sì, mi piacerebbe molto fare l’amore con te ma non so se a te piacerebbe farlo con me.
- Perché?
- Perché io non sono, come si dice, un uomo normale, anzi.
- In che senso? A parte che a me gli anormali piacciono da impazzire, ovviamente.
- Io faccio cose che normalmente le persone considerano malate, perverse, diaboliche.
- Io non sono “normalmente le persone” …
- Lo vedo.
-
Ci speravo lo vedessi. Quindi andiamo? Non hai fame? Io da morire! So
cucinare benissimo sai? No, non puoi saperlo. Te lo dico io.
S’è già alzata e m’ha preso la mano, quasi tirandomi in piedi.
- Dai mio pervertito amore, fammi vedere cosa ti piace e vediamo se riesci a scandalizzare una parigina …
- Sei di Parigi?
- Oui mon amour, Montparnasse.
- Ah, bello!
- Conosci?
- ... Vagamente.
Io
vivo lontano, lontano da tutto. Ma questo già lo sapete. Ci abbiamo
messo un bel po’ ad arrivare ma non è stato un viaggio noioso, no no,
per niente. Anzi.
Lei sa parlare un italiano praticamente
perfetto, con un accento francese che m’istigava, ad ogni curva, a
fermare la macchina, ribaltare i sedili e prendermela lì, come
antipasto, sul ciglio della provinciale mentre i camionisti sfrecciavano
verso serali aree di sosta e i pendolari pendolavano indietro, verso
casa, verso trepidanti massaie in attesa d’un paio d’orecchie nelle
quali riporre le loro abnormi e fumose frustrazioni.
Lei
sa parlare un italiano praticamente perfetto, con un accento francese
che mi manteneva eretto anche mentre mi raccontava del suo lavoro, delle
sue galanti avventure, dei suoi incontri folli come stasera, come con
me, come in quel momento.
Sì io abito lontano ma per la
prima volta penso che forse è davvero un po’ troppo lontano. Ci dovrò
ragionare meglio la prossima volta. O mi faccio abbordare nel bar del
paese o mi trasferisco in città.
Vedremo.
In ogni
caso davvero lei cucina benissimo ma il mio vino ha una parte non
secondaria nella cena, vino italiano, vino siciliano, di quello che fino
a vent’anni fa non piaceva a nessuno e che ora, ora, fa faville anche a
Parigi. Ve l’assicuro.
A proposito, si chiama
Marguerite. Marguerite Ferranti. Semmai vi capitasse d’incontrarla però
non ditele che ho scritto di lei, mi raccomando, è così riservata.
Sotto
il vestitino leggero porta solo un paio di slip rigorosamente bianchi.
Toglie anche quelli in sala da pranzo e li appoggia sulla sedia dove già
il vestitino è finito, subito dopo il caffè. Mentre si spoglia mi
chiede se voglio fare la doccia con lei o se preferisco dopo.
Ci penso un attimo. Il box doccia è stretto, troppo stretto per due persone, opto per il dopo.
- Se vuoi puoi guardarmi mentre mi lavo. Ti piace guardare e, magari, masturbarti un pochino? A molti uomini piace.
- Sì piace anche a me ma preferisco qualche altra cosa per ora, magari dopo.
- Sei timido?
E’
nuda, davanti a me, in piedi. Le prendo la nuca e la chiamo al mio
desiderio, labbra quasi sulle labbra, un lieve sfiorarsi di bocche
socchiuse, assaporarsi senza gustarsi, giocare con la passione
sfiorandone gli sfrangiati contorni, carezzarsi senza divorarsi e
toccarsi senza penetrarsi. Un guizzare di lingue e sotto le mie mani la
pelle morbida, elastica e tiepida di Marguerite, i suoi seni, i suoi
fianchi, le sue cosce, le sue braccia.
- No, non sei timido, vedo.
Spinge
il bacino verso il mio bacino e struscia il sesso depilato e fresco sul
mio sesso duro, desideroso di farsi strada il lei, in ogni lei
penetrabile e accessibile, in ogni lei aperto a me o che sarò in grado
di farmi aprire, prima che tutto finisca e il sogno svanisca nel sole
pallido d’una città morente.
Mentre fa la doccia parliamo,
parliamo di lei, di me, dei miei desideri e dei suoi. Aveva ragione,
non si può scandalizzare una parigina, non si riesce mai a scandalizzare
una parigina, una parigina è inscandalizzabile.
- Resti vestito?
- Per ora sì.
- Ma poi?
- Poi si vedrà.
E’
flessuosa Marguerite, è lei il serpente originario che morse Adamo
prima ancora di vendere ad Eva la mela. E’ morbida e soda la sua carne
che cede tra le mie braccia, che bacia il mio collo, che struscia il
nudo sesso alla stoffa dei miei calzoni mentre la lego al cavalletto, le
braccia aperte trattenute per i polsi, le cosce spalancate, fissate con
giri di corda grezza poco sopra le ginocchia, poco sotto i polpacci.
Mentre lavoro alle sue caviglie sopra di me la sento respirare e gemere,
la sento desiderare e chiamarmi.
- Mi farai male?
Mi
guarda armata di occhi verdi e scintille di lascivia, mi guarda
irridente mentre coi denti si martirizza deliziata il labbro inferiore.
Mi guarda e mi sfida a risponderle. Non puoi scandalizzare una parigina.
Lo sapevo bene, fin dall’inizio.
- Si Marguerite, ti farò molto male; ti farò un male infinito.
- E ti piacerà?
La
bacio, prima giocando con le sue labbra e poi possedendola, in bocca,
con la lingua. Lingua su lingua, lingua intorno alla lingua ne assaporo
il gusto di femmina, di donna, di preda. Poggio il mio bacino su di lei,
le lascio sperimentare la consistenza dura, invasiva, del mio sesso, le
prendo un capezzolo tra le dita e gioco con la sua eccitazione, la sua
attesa. Il primo gemito ansioso di dolore lo bevo direttamente dalla sua
bocca, lo esalto, lo prolungo fino a sentirne gli spasimi ambrati
colare verso dimensioni d’ansia convulsa e poi lo smorzo in una carezza
di puro desiderio, di pura passione.
Piano, con calma,
stacco le mie labbra dalle sue gustando ancora per un attimo il sapore
forte della sua saliva, della sua bocca. Piano, con calma, la carezzo,
percorro al curva eccitante del seno, l’areola e ancora il capezzolo;
coi polpastrelli ne disegno la turgida insistenza, la sfacciata
prominenza. Lascio che il piacere si avvicendi al dolore e le prendo il
mento tra le mani, bevo ai suoi occhi umidi di lacrime e perversione.
Bevo alle sue labbra inondate di lascivia. E’ un sussurro che mi carezza
il membro la sua voce, così francese, così parigina.
- Oui, spero che sarà una lunga notte …
- Lo sarà te lo assicuro.
- Mercì.
Il
cavalletto è resistente, pesante, inchiodato al pavimento. Nella stanza
dei miei giochi non mancano le fruste e sarei tentato, ora, di
prenderne una e disegnare sulla sua pelle strisce sottili di dolore,
sottili segni d’intenso e rovente e sofferto piacere ma ancora non è
tempo, la notte sarà lunga e non mi piace bruciare le tappe, non quando
ho tra le mani una vera parigina.
La guardo, nuda e
legata, esposta ai miei occhi, bella, i seni pieni, i fianchi stretti, i
capezzoli piccoli e sfacciati, le gote arrossate, la linea eccitante
del collo, le cosce scattanti, gli occhi verdi scintillanti desiderio i
capelli neri, morbidi e vivi. Perfetta, semplicemente perfetta, la pelle
chiara e pura dei suoi avi normanni.
Potrei anche amare una creatura così, se fossi capace d’amare.
Le
sorrido e lascio che per un attimo si abbandoni al piacere, la masturbo
lievemente, ne tasto la consistenza del clitoride duro, quasi pulsante,
ne invado il lago di umori che gocciola, quasi, tra le mie dita, gioco
con le piccole labbra aperte come petali d’orchidea e indugio con
languore all’ingresso morbido del suo sesso, da qui, bagnate le dita di
lei stessa vado ad esplorarla, ne lubrifico l’ingresso e piano, pochi
millimetri per ora, ne varco la soglia, in delicata ma decisa conquista
della sua riposta intimità.
Geme la cagna, geme la troia e
gemendo mi supplica di penetrarla, di scioglierla, di fotterla dietro e
davanti. Geme e si struscia, apre la bocca in aneliti di desiderio e
ostenta la lingua, lecca dinnanzi a sé la mia mano che le permetto di
assaporare e che lei gusta come animaletto devoto, devota cagnolina in
calore, devota schiava della sua stessa oscena eccitazione.
- Sei una scrofa Marguerite, sei una vera scrofa. Cosa devo fare con te
tesoro? Ti picchio o ti fotto? Cosa preferisci bestiolina?
- Entrambi ... ti prego …
E’
un sussurro ma ben s’intende un sussurro nel silenzio spezzato solo
dalla musica antica e mai demodé degli ansiti profondi e dei singulti
d’inappagata eccitazione.
“Entrambi ... ti prego” non è possibile, per ora, ma vedremo che fare, in seguito, per accontentarla.
La
lascio a se stessa pochi secondi, il tempo d’aprire un armadio in legno
di noce ed estrarre una cassettina di rovere colma d’interessanti
giochini. Poggio la cassetta sul top del cavalletto e la apro guardando
lei e sorridendo a lei e nutrendomi di lei, della sua attesa, della sua
speranza.
I piccoli pesi s'adattano perfettamente alle sue
grandi labbra e le clamp - che spettacolo mentre le minuscole pinze si
serrano sui capezzoli - la mordono affamate di sofferenza pretendendo e
strappandole dolore come brani d'anima. Urla e per un attimo, lo vedo
nei suoi occhi sbarrati, pensa di non riuscire a farcela, di non
riuscire a reggere l’intensa e bruciante e pungente pena che le apre il
seno e s’insinua da questo fino alla nuca, al centro stesso del suo
essere, al centro stesso della sua mente.
Danno soddisfazione le
parigine, l’ho sempre detto, anche in altri e passati tempi, anche
quando col mio amico Donatien Alphonse …, ma quella è tutta un'altra
storia, tutto un altro mondo.
Tu, Marguerite, tu sei già
trasmutata, sei già oltre. Il semplice guardarti mi suscita pensieri
scabrosi di viva adorazione. Dinnanzi a me non più una femmina, una
donna bella ma di bellezza usuale, dinnanzi a me una Dea, una Creatura
di Celestiale ed Infernale bellezza fiammeggia dolore e piacere, come
stella splende di propria luce. Basta così poco per rendere unica una
donna, basta così poco per renderla sovraumana e adorabile come una vera
Divinità.
Ansimi e farfugli lievemente parole in francese
e in italiano, qualche frammento di una lingua ancora più antica che mi
solletica l’orecchio come se ... come se ci fosse tra noi un legame che
va oltre l’adesso. Una lingua così antica che lo stesso Lucifero
potrebbe averla inventata e poi dimenticata ma che noi, sue imperfette
creature, ancora ascoltiamo con infinita nostalgia del perduto Eden, del
perduto primordiale peccato.
Ti bacio e ora la tua saliva
ha il sapore dolce del dolore che incessante ti trafigge i capezzoli
come ago rovente, ti risale lungo i seni e ti brucia il collo, le
orecchie, le tempie. Ti bacio e tu mi baci lanciandoti sulla mia bocca
come su anestetico alle tue triviali sofferenze. Com’è facile farsi
amare da una piccola e stupenda parigina. Con quale impeto di passione
succhi la mia lingua e implori il mio membro, ora. Con quale infinito
amore, con quanta infinita devozione leccheresti il mio sperma pur anche
dal pavimento adesso che il dolore intenso ti trapassa il cervello come
lama arroventata e ti fornisce un commendevole alibi per il più osceno
abbandono.
Quanto amore riversa la mia piccola preda nelle
mie mani sbavando e succhiando le mie dita, lavandole dai suoi stessi
umori, dagli umori che raccolgo colanti dalla sua vulva, dalle sue cosce
spalancate, e con la quale mi diletto dissetarla.
Ti
guardo negli occhi e ti poso una mano sul collo, un attimo d’intesa e
sai che è ora d’urlare forte, molto forte, più forte che puoi per
superare con la voce il rumore assordante del tuo stesso dolore. Tolgo
le pinze da un capezzolo e mi delizi della tua armonia arrochita di
sofferenza. Non lascio che si spenga il primo urlo, non sarebbe generoso
farti questo favore, tolgo anche la seconda pinza e sotto il palmo
della mia mano, ancora poggiata sul collo, vibra un grido potente che ha
il sapore inebriante dell’angoscia e della disperazione.
La
lascio riprendersi, lascio che singhiozzando mi lecchi le dita e lascio
che il piacere torni a dominare i suoi nervi carezzandone la pelle
calda e morbida, la diafana, candida pelle.
- Encore, je vous en prie, encore.
- Ancora mia piccola cagnetta? Ancora cosa? Ancora dolore? Ancora piacere?
- A la fois mon maitre. Entrambi mio padrone.
- Ne sei certa?
- Oui, ne sono certissima, ti prego …
Sono così speciali le parigine, così particolari, così perverse.
La
slego dal cavalletto e la prendo in braccio. Come fosse una bimba la
sollevo e la porto verso il grande letto della casa persa nel lontano
dei suoi sogni, dei suoi più intimi desideri, delle sue più riposte
perversioni.
E’ forte il diavolo, sa come sollevare i
sogni di una donna e trasportarli al talamo della sua stessa perdizione.
Ci sarà tempo per frustarti e leccare dalla tua schiena le dolci gocce
del tuo sangue caldo d’eccitazione. Ci sarà tempo per penetrarti da
dietro mentre supplichi e gemi e piangi di dolore, umiliazione, piacere,
desiderio. Ci sarà tempo per farti leccare a lungo il mio ano
soffocando i tuoi gemiti sconci ed osceni sotto i miei glutei mentre
lievemente, profondamente, ti martirizzo i capezzoli e ti masturbo senza
mai più consentirti, mai più per l’eternità, d’appagare l’eccitato
devastante desiderio, l’impellente, fragorosa eccitazione.
Ci
sarà tempo per riempirti la bocca del mio sperma bollente, per
ustionarti la lingua con il mio seme partorito dal magma stesso della
creazione e depositato dal Padre mio nel mio ventre perché ne infettassi
le figlie di Eva.
Ci sarà tempo per ghermirti i neri
corvini capelli e schiacciarti il volto sul mio membro ancora duro e
ordinarti di leccarlo e succhiarlo, ripulirlo dei tuoi umori e del mio
seme e adorarlo in eterna, prostrata venerazione.
Ci sarà
tempo per farti firmare, col tuo stesso sangue, il patto eterno che ti
donerà un’immortale scintillante bellezza in cambio di un’anima comunque
già persa oltre gli oscuri, monumentali portali del peccato. In cambio
di un’anima comunque già mia prima dei tempi e prima del tempo stesso.
Ci sarà tempo per questo e anche per altro ma io non ho fretta.
Mentre
ti porto sul grande letto assaporo le tue carezze e il caldo sapore
d’intimità, il forte profumo di donna che s’espande come onda di
maremoto dal tuo sesso ancora bagnato di lusinghe e promesse.
Il diavolo a volte riesce anche quasi ad amare le anime che miete, quasi a scaldarsi con la loro fiamma.
Quasi.
In ogni caso lei sarà presto mia.
Per tanto, tanto, tanto tempo ancora.
[Fine ...]
Ottimo ed abbondante :)
RispondiEliminaBene! Mi fa piacere che ti abbia saziato :-).
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